Frontiera: quando un bambino passa un confine vede cosa cambia, nota che le segnaletiche mutano colore. C’è una linea e quella linea ha il potere di dire che siamo diversi, separati, anche se molto simili. E spesso più si cresce, più si ha bisogno di marcare le differenze.
L’esperienza del corso tenuto dal Jesuit Social Network a Selva Val Gardena dal 27 luglio a 7 agosto 2013 ha rivoltato il concetto di frontiera come un calzino. Difatti per marcare le differenze, serve aderire ad una rappresentazione superficiale: tutto il contrario ha generato nel nostro cuore la pillola di pedagogia ignaziana proposta da p. Alberto Remondini. Quella linea è diventata un volume che si espande nella nostra interiorità: uno spazio per l’altro, per l’emarginato, per il rifugiato e per il povero. La linea è diventata un diaframma attivo che ammette il diverso, in ragione della capacità di vagliare – dopo un’adeguata sedimentazione – le nostre emozioni, e progettare l’azione, che a quel punto nasce radicata dentro.
Le lezioni di economia hanno confrontato il modello economico classico, con quello di A. Sen, rilevante perché ha dato un nuovo quadro teorico all’ultima enciclica “sociale” che è la Caritas in Veritate, ma anche per il rilievo dato alla crescita intellettuale e umana della persona come via dello sviluppo: Daniele Frigeri ci ha spinto a gestire un budget familiare secondo le nostre priorità, valutando come aderivamo ai modelli presentati, o come ne fossimo lontani. Spesso le lezioni di Daniele continuavano discutendo a pranzo, segno della consapevolezza che stavamo acquistando, quasi che questa fosse pane per gli affamati.
Gli incontri pomeridiani con associazioni e persone attive in realtà difficili, oppure nell’accoglienza dei migranti hanno polverizzato quel principio d’ordine che fa sì che ci consegniamo anima e corpo a degli stereotipi comodi della diversità: un cowboy deve pensare l’indiano come sporco e cattivo, e noi siamo indotti a pensare un rifugiato come una minaccia. Poco importa se la ricchezza interiore che ognuno ha è la base per comunicare, per accogliere. Poco conta se la povertà provata da altri muove emozioni, che sono risorse enormi per chi le sa ascoltare…
Abbiamo sondato quello che si muoveva in noi, quando p. Alberto ci chiedeva di chiudere gli occhi e di ascoltare la nostra interiorità: ho capito che questo era una scommessa sulla nostra libertà, sulla capacità di spoliazione dall’emotività mordi e fuggi che è quella veicolata dai media, sull’investimento su emozioni più profonde: abbiamo lavato i nostri scarponi dal fango limaccioso per fare presa sulla roccia e farvi perno per mantenere l’equilibrio e avanzare…non preoccupatevi: è solo una metafora dei due tipi di emozioni, perché il nostro soggiorno a Selva è coinciso con la settimana più calda e assolata dell’anno, senza perturbazioni.
Permettetemi di fare una sviolinata ai gesuiti, perché è sincera. Un gesuita di nome Francesco e di mestiere vescovo di Roma, ha ricordato che la parola solidarietà è bandita dalla buona società: questo significa che la sola pronuncia minaccia un sistema di valori basato sull’immediatezza della fruizione dei beni e della combustione delle emozioni, significa che la profondità interiore ci spaventa perché è essa stessa caldamente sconsigliata oggi. Un gesuita immaginario nel Soulier de Satin di Claudel diceva: “E’ vero, sì, che sono attaccato alla croce, ma la croce alla quale sono attaccato non è attaccata a nulla.”…come a dire che le sofferenze, le difficoltà nostre e dell’altro non sono condanne e schiavitù, ma “pesi liberi” per coscienze liberate dalla schiavitù dell’ottusità e del settarismo.
Questo inizio di apertura, di rinuncia al pre-giudizio è il grande dono che il JSN ci ha affidato a Selva: noi abbiamo solo otri fragili e mani deboli, ma non disperiamo di radicarci dentro un punto di vista diverso perché accogliente.
Alberto Citron